Quel prodigio di Proust

In tempo di Covid-19, di quarantene e di confinamento assistiamo a un dispiegamento e a una valorizzazione di risorse culturali digitali off e on line al momento senza uguali. 
Quale occasione e strumento migliore del resto per ingannare il tempo? E perché no, per ingannare un po’ il Covid e la paura che il Covid ci fa?
Penso però anche a un’idea e a un significato di inganno che trovano ragione nella sua radice di gioco, artificio, trucco, prodigio, ovvero meravigliosi espedienti per leggere la realtà non secondo coordinate scientifiche di causa effetto, ma secondo parametri da queste non necessariamente condizionati. Prodigi, allora, le risorse culturali stesse.
Mi guardo bene dal denigrare la scienza, soprattutto in questo momento. Ad essa facciamo appello per un vaccino, per calcolare la carica virale di Sars-Cov2 in modo da prevedere cura e degenza necessarie, per spiegare le possibili relazioni tra la distruzione di interi ecosistemi e l’avanzata di virus pronti a fare il salto di specie, per le possibili alternative alle energie fossili e alle ipotesi di nuovi modelli di sviluppo.

Ma quando si avverte che di fronte a certi fenomeni giustamente il pensiero scientifico non è pronto, ha da interrogarsi, capire, verificare, ipotizzare, ha cioè bisogno di fare il suo mestiere, procedendo con il metodo che gli è proprio, piuttosto che avere risposte sicure e immediate da dispensare alla comunità sola e impaurita, ci rendiamo conto che forse da tempo non facciamo più seriamente ricorso a quegli artifici che lo stesso genio umano ci dispensa generosamente e che ci consentono di rappresentare la realtà al pari del sapere epistemico.
Un esempio straordinario di come si generi e si propaghi la rappresentazione dell’universo attraverso la risorsa culturale del romanzo, per citarne una, ci arriva dall’inizio del secolo scorso.

“In quella specie di iridescente schermo di stati diversi” che venivano dispiegati simultaneamente dalla coscienza durante la lettura  “e che andavano dalle aspirazioni più profondamente nascoste […] alla visione affatto esteriore dell’orizzonte […] quel che c’era innanzitutto e più intimamente era “la fede nella ricchezza  filosofica, nella bellezza del libro” che si stava leggendo, qualunque esso fosse questo e indipendentemente dalla storia che raccontava.
È il Narratore de La strada di Swann di Proust, assai grato al primo romanziere, la cui genialità fu “di comprendere che nel meccanismo delle nostre emozioni l’immagine è l’unico elemento essenziale, e che la semplificazione consistente nella pura e semplice soppressione dei personaggi reali avrebbe dunque costituito un perfezionamento decisivo”.

Per raggiungere lo scopo è la materialità degli uomini a essere soppressa, in quanto non penetrabile all’animo umano. “Un individuo reale, per quanto profondamente possiamo simpatizzare con lui, è percepito in gran parte dai nostri sensi, il che significa che resta opaco per noi, che la nostra sensibilità non riuscirà mai a sollevare il suo peso morto. […]. La trovata del romanziere è consistita nel sostituire quelle parti impenetrabili all’anima con una uguale quantità di parti immateriali, tali cioè che la nostra anima possa assimilarle”.
Nonostante si rimanga immediatamente ammaliati dalle alchimie dell’immaterializzazione di fronte a cui il romanziere, il Narratore e Proust ci pongono – il primo smaterializza la materialità degli individui, il secondo è spettatore dell’incorporeità dei propri ricordi, infine l’ultimo ha consumato il tempo vivo degli ultimi anni della sua vita alla ricerca del tempo inconsistente del passato attraverso un’opera letteraria, questa per sua natura fatta senza sostanza – è il pensiero ad aprire la strada dell’immaterialità, pensiero come timido e potente nocciolo atomico che smaterializza e ricrea secondo nuova consapevolezza.

image: Proust's nestoriginal mash-up picture, source images from Wikimedia Commons

 

“E il mio pensiero non era anch’esso una sorta di nido nel fondo del quale sentivo d’essere sprofondato, magari per guardare quello che stava succedendo fuori? Quando vedevo un oggetto esterno, la coscienza di vederlo restava fra me e lui, lo circondava di una sottile bordatura spirituale che mi impediva di raggiungere direttamente la sua materia; questa in qualche modo si volatilizzava prima che la toccassi, così come un corpo incandescente, se lo si avvicina a un corpo bagnato, non entra mai in contatto con l’umidità perché è sempre preceduto da una zona di evaporazione”.

Come poter negare valore cognitivo a questa attività? Perché di conoscenza pur si tratta, se pone interrogativi, se chiarifica o aiuta a farlo, se favorisce infine il potere assertivo della visione consapevole della realtà.
Se si volesse leggere il plauso a questo pensiero come invito a un altro colpo di coda delle correnti irrazionaliste credo che ci si farebbe un grave torto, perché sarebbe come negare, per esempio, la verità di tutta la produzione artistica che l’umanità ci ha consegnato e che continua a tenerci vigili non su ciò che vediamo ma su ciò che possiamo vedere. 
Il primo pensiero è andato all’arte perché è da qui che la mia formazione arriva, ma se adesso a scrivere fosse un filosofo, un religioso, un antropologo, o uno storico, un asceta o un saggio o un artista stesso, o, diciamolo, semplicemente un individuo che operi e stia nel mondo in un qualsiasi modo, forse attesterebbero tutti l’esercizio della visione, praticato anche dal Narratore de La Recherche, come minimo comun denominatore dell’animale uomo.

 

Tutte le citazioni sono tratte da M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, traduzione di G. Raboni, Mondadori, Milano 2014, pp. 58-59

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